Cassazione: insulto via email per mancati pagamenti non è reato

 

Lo stato d’ira palesato via email a più persone da parte di  colui che non riceve un pagamento promesso non è punibile operando la scriminante prevista dall’art 599, 2 comma del codice penale  a mente del quale ” Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 ( che punisce la diffamazione n.d.r.)  nello stato d’ira determinato da un  fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.

Tanto più quando questo stato d’ira sia alimentato da commenti di altri utenti sui social network a causa dei mancati adempimenti da parte del debitore.

E’ quanto ha stabilito la Cassazione in una sentenza emessa in sede penale a metà agosto del 2018.

Il Supremo Collegio ha dichiarato inammissibile il ricorso della parte civile che contestava l’assoluzione nei due gradi di giudizio di un soggetto che aveva inviato una mail ingiuriosa a più destinatari per via di un mancato pagamento di fatture.

In particolare la vicenda traeva origine da una sentenza del  Tribunale di Torino che confermava  a sua volta la sentenza del Giudice di Pace della città transalpina, con la quale  l’imputato era stato assolto dal reato ex art. 595 c.p., con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ritenendo operante l’esimente della provocazione di cui all’art. 599, comma 2, c.p.

In particolare la vicenda traeva origine da una sentenza del  Tribunale di Torino che confermava  a sua volta la sentenza del Giudice di Pace della città transalpina, con la quale  l’imputato era stato assolto dal reato ex art. 595 c.p., con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ritenendo operante l’esimente della provocazione di cui all’art. 599, comma 2, c.p.

I giudici di merito avevano ritenuto che le offese contenute nella e-mail fossero giustificate, costituendo esse il portato di uno stato di esasperazione dell’imputato dovuto al comportamento della società  il quale non aveva adempiuto, fino a quel momento, al pagamento delle fatture per le prestazioni da lui eseguite (in virtù della concessione alla p.o., con la stipula di un contratto di collaborazione online, dell’inserzione di pubblicità sul proprio sito); tale stato di esasperazione era alimentato, altresì, dal protrarsi del silenzio rispetto alle richieste di pagamento, nonché dalla circostanza per cui l’imputato aveva appreso da commenti presenti su altri siti internet che la società si era resa inadempiente anche con altri soggetti.

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